Quando il gioco non è più libero

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Quando il gioco non è più libero

Cosa succede quando un gioco non è più “libero”? Tra atleti professionisti, gamification aziendale e giochi imposti, esploriamo i confini del pensiero ludico da Caillois ai teorici contemporanei.

Caillois e il gioco “libero”

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Un bambino obbligato a giocare si diverte davvero? Un videogiocatore che si collega ogni giorno per non perdere un bonus, sta ancora giocando? Un atleta che vive di sport professionistico, gioca o lavora? Domande semplici, ma tutt’altro che banali. Soprattutto se si prende sul serio uno dei criteri fondamentali con cui Roger Caillois, nel 1958, definiva il gioco: la libertà.

Nel suo celebre saggio “I giochi e gli uomini“, Caillois individua sei tratti distintivi del gioco: Libertà: il gioco è volontario. Se è imposto, cessa di essere tale; Separazione: si svolge in un tempo e spazio delimitati; Incertezza: l’esito non è predeterminato; Inutilità: non produce vantaggi materiali diretti; Regole: è regolato, ma con norme proprie; Finzione: si muove in un mondo simbolico, distinto dalla vita reale.

La libertà viene posta come condizione necessaria: “Il gioco è libero, o non è gioco”. Ma è davvero così? Nella pratica quotidiana, esistono molti giochi non liberi.

Nello sport professionale, un atleta si allena con fatica, gioca per vincere premi e stipendi, secondo ritmi serrati. Dov’è la libertà? Nella gamification aziendale: premi, classifiche e badge usati per aumentare la produttività. Il gioco viene imposto, anche se con linguaggi ludici. Dov’è la libertà? Nella produzione di streaming riguardo i videogiochi professionali il gioco diventa contenuto, mercato, branding. Dov’è la libertà? Nel gioco in ambito educativo o terapeutico, il gioco viene usato come strumento per uno scopo esterno (insegnare, curare). Dov’è la libertà? (In questo caso viene anche violato il principio dell’inutilità. In tutti questi casi, c’è il rischio che il gioco diventi funzione, prestazione, strumento. Esattamente ciò che Caillois escludeva.

Naturalmente, non è mia intenzione screditare tutti questi usi ed “estensioni” del gioco in ambiti vicini riguardo la sua applicazione, ma quello che voglio dire è che, delle due l’una. O Caillois è superabile, oppure non dobbiamo usare la parola “gioco”.

Il gioco come ambiguità e come “modo di essere”

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Brian Sutton-Smith, in The Ambiguity of Play (1997), rifiuta un’unica definizione di gioco. Ne individua sette retoriche (dal progresso all’identità, al potere, al destino…) e mostra come il gioco possa servire a molti scopi, non tutti “inutili” o liberi. Secondo Sutton-Smith, il gioco è un campo semantico ambiguo, dove ciò che conta è come viene vissuto e interpretato, non tanto come è classificato.

Miguel Sicart, in Play Matters (2014), supera il problema partendo da un altro presupposto: il gioco non è solo un’attività, ma un atteggiamento, un modo di essere nel mondo. Si può giocare in modo serio, obbligato, persino costretto, purché si mantenga uno spirito di apertura, di significazione, di interpretazione personale. Per Sicart, il gioco non è evasione: è relazione, espressione, agency.

Alla luce di queste prospettive, si potrebbe dire che un gioco può non essere libero, e restare comunque gioco. Oppure, che la libertà ludica non è assenza di regole, ma capacità di vivere le regole come parte di un’esperienza dotata di senso.

Il paradosso resta: più cerchiamo di definire cosa sia il gioco, più esso ci sfugge. E proprio qui sta, forse, il suo fascino più grande.

Nell’elaborazione di questa ricerca e di questo testo è stata utilizzata l’AI.

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